Gli occhi di Hasan

L’umanità è in movimento per mille ragioni. Tra queste la persecuzione da parte di un’altra parte di umanità, una contraddizione dolorosa che fa riconoscere nemici per cultura, storia, provenienza, o anche solo per i tratti somatici. E spesso chi si sposta lascia molto di sé e vive la nostalgia e la voglia di ritrovare gli affetti

Hasan, a guardarlo, ha dei tratti fortemente orientali e quasi si distingue dai suoi connazionali, bruni e di alta statura. I suoi occhi a mandorla sprizzano insieme gioia e tenerezza e il suo sorriso è irresistibile. Eppure la sua vita non è stata facile.

Parla molto bene l’italiano e sta studiando per avere il diploma di terza media. Ha un accento caratteristico e anche se a volte gli altri lo prendono in giro riesce a conversare più a lungo di tutti esprimendo concetti importanti ed un mare di emozioni.

È grazie a lui se mi sono appassionata alle vicende degli Hazara, l’antica etnia afgana perseguitata, oggi minoritaria, su cui tanto violentemente si sono accaniti e continuano a farlo gli stessi talebani. Attentati che hanno preso di mira bersagli infamemente fragili, come un ospedale pediatrico o una scuola femminile, dai quali sono usciti corpicini ignobilmente mutilati e vite spezzate.

Hasan mi chiede cosa possiamo fare per portare in Italia i suoi due fratelli minori; prima sua madre si occupava di loro, ma purtroppo lei è morta circa un anno fa. Uno dei due ha una disabilità psichiatrica e non può lavorare. Sono affidati ad un parente che ha bisogno di aiuto per sostenerli e così Hasan lavora e si impegna duramente da quando è in Europa per mandare loro dei soldi, anche se spesso è difficile sentirli o avere loro notizie.

Purtroppo la normativa ufficiale non consente il ricongiungimento con i fratelli e, anche volendo tentare, le cose si complicano. L’ambasciata a Kabul non risponde, ottenere i documenti sembra sempre più difficile, a volte impossibile.

Sono passati tanti anni da quando ha lasciato il suo paese da solo, quasi bambino, per rifugiarsi in Iran. Ha perso le tracce di suo padre e di suo fratello, si è rimboccato le maniche. Mi emoziono quando racconta di come si sia finto muratore per avere un lavoro: «Avevo visto come faceva il signore e ho imparato guardando». Mi ricorda la storia del film Baran di Majid Majidi (2001), nel quale una bambina deve fingersi muratore per poter mantenere il padre. «Quel signore mi faceva fare tutto, cucinare, lavare i piatti, i vestiti… diceva che ero il suo servitore e gli dovevo obbedienza. Non potevo rischiare di perdere il lavoro: in Iran quelli come noi li hanno mandati a combattere in Siria o peggio li rimpatriano in Afghanistan dove puoi essere ucciso anche solo perché hai questi occhi».

È vero, l’ho letto altrove e sentito tante volte, eppure quegli occhi a me hanno comunicato sempre e solo dolcezza.
Oggi Hasan vive e lavora in Italia. Ha aiutato tanti ragazzi come lui a trovare lavoro, senza mai perdersi d’animo e imparando a fare un po’ di tutto, come la raccolta delle olive in Sabina. Non è ancora riuscito a portare i suoi fratelli, ma dopo molto tempo, pieno di emozione, è partito per andarli a trovare.

di Chiara Curini, da «Frontiera» n.6 del 18 febbraio 2022

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