Tra la via Salaria e il mondo: l’accoglienza dei rifugiati nella provincia di Rieti

Era il 10 aprile 2015. Ricordo bene il giorno, perché è la ricorrenza della festa della Polizia ed ero uscita in anticipo dalla Questura dove lavoravo. Ho notato, rannicchiato su una panchina del marciapiede che delimita un piccolo giardino che dà respiro all’austero palazzo dell’ente, un ragazzo minuto ed emaciato.

Mi sono avvicinata: era stanco e affamato. Gli ho offerto un pezzo di torta avanzata dai festeggiamenti e l’ho portato a casa per il pranzo. Mi ha raccontato la sua storia e quella di un viaggio faticoso e per me incredibile, pensando ai miei due figli: seppur molto intraprendenti, non credo avrebbero potuto affrontare tanti e tali disagi.

Shoidul è partito da una città del Bangladesh dopo essere rimasto orfano del padre, con la madre e quattro sorelle da sostenere. È entrato in Italia dal valico Fernetti, al confine con la Slovenia, con in tasca il suo certificato di nascita. Ma è stato fermato e denunciato, perché nessuno ha creduto ai suoi 16 anni e all’autenticità di quel certificato. Poi, è arrivato, per caso, a Rieti.

Nei giorni seguenti ho organizzato il viaggio a Roma per l’ambasciata del Bangladesh, in compagnia di un’amica, insegnante di inglese, che ha fatto da interprete, e di un collega. Abbiamo fatto tradurre e legalizzare il certificato di nascita e, tornati a Rieti, Shoidul è stato subito inserito nel Sistema di accoglienza integrata (Sai) per minori dell’Arci, dove è rimasto fino alla maggiore età.

È così che mi si sono aperti gli occhi sulla realtà dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Ed è per via di quell’incontro che poi ho dato la disponibilità a un servizio in diocesi accanto a queste persone.

L’attività pastorale della chiesa di Rieti per i migranti e per i rifugiati, in particolare, si “svela” alla gente soprattutto grazie all’annuale Festa dei Popoli, che quest’anno abbiamo organizzato il 15 giugno. Ma è in effetti un’azione quotidiana, in territorio fatto di tante piccole comunità. Di recente, ad esempio, il 24 maggio scorso, alcuni rifugiati provenienti da Ucraina, Gambia, Camerun e Costa d’Avorio – Natalia, Fantali, Mohamed, Martin, Giovanni, Mohamed, Gibril e Kalilou – hanno incontrato la comunità di Torano, frazione di Borgorose (Ri). Con loro, le operatrici del progetto Sai “Il Samaritano” e della Migrantes diocesana.

È stato un momento semplice e autentico, in cui i giovani ospiti si sono sentiti accolti al punto da condividere con sincerità le ragioni che li hanno spinti a lasciare il proprio Paese. Hanno raccontato del viaggio lungo e incerto, della paura di non farcela, della preghiera che ha sostenuto i loro passi restituendo forza e speranza. E poi il pensiero costante verso chi è rimasto indietro, il desiderio di essere per loro un sostegno attraverso il lavoro e le opportunità trovate qui.

La comunità di Torano ha risposto con ascolto partecipe, raccontando a sua volta l’esperienza di accoglienza delle famiglie migranti, italiane e straniere, che hanno scelto di iniziare una nuova vita in paese. Un legame che si è tradotto in gesti concreti, non ultimo il contributo fondamentale a mantenere aperte la scuola dell’infanzia e la primaria.

E Shoidul? “Che fine ha fatto”, direte voi? Shoidul una volta entrato nel Sai ha imparato l’italiano, ha studiato e ha conseguito la terza media. Gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Ha lavorato per qualche anno presso un albergo cittadino. Poi, insieme a un connazionale, Riad, ha messo su una società e aperto un primo negozio di elettronica nella centrale via Roma a Rieti. Dopo qualche anno hanno aperto un secondo negozio a Tivoli, gestito direttamente da lui. In entrambi i negozi lavorano anche alcuni connazionali e sono un riferimento per tutta la comunità bengalese presente in provincia di Rieti. Il lavoro di Shoidul ha ottenuto la dote e un buon matrimonio per le sue sorelle rimaste in patria. Ora anche lui è felicemente sposato, padre di una bimba e in attesa del secondo figlio. Ed è soddisfatto della sua vita qui.

di Franca Maria Palumbo

RINASCERE A RIETI

La via Salaria è il filo, ancora insuperato, che ci lega da sempre al resto del mondo. La storia di questa strada e quella della nostra città sono indissolubilmente legate, fin dai tempi in cui quello della provincia di Rieti si poteva considerare un “territorio di passaggio”, un ponte da attraversare, un collegamento. Se l’attualità di questo carattere specifico è venuta meno nel suo aspetto concreto, lavorando nell’accoglienza tuttavia è impossibile non fare continuamente i conti con concetti come “transito” e “transitorietà”, con la vitalità che comportano, con il potenziale che si viene a creare laddove si incontrino i bisogni di coloro che questi territori abitano e quelli di chi vi cerca una possibilità.

Grazie alla rete che il progetto Sai ha costruito negli anni, riceviamo spesso richieste che arrivano proprio da quella parte settentrionale della provincia che tanto duramente è stata colpita dal recente terremoto. Persone che a volte si sentono isolate, strutture ricettive o aziende che, sebbene non siano facilitate dalla loro collocazione, trovano il modo di andare avanti, anche grazie all’energia, ai sogni, alla forza delle aspettative dei ragazzi stranieri che “osano” addentrarsi fra le nostre montagne.

Lavorare in cucina, in agricoltura, nell’allevamento: sono tante le belle realtà che hanno accolto ragazzi e ragazze del progetto, dando loro la possibilità di imparare la lingua e la cultura italiana e di approcciare un modo diverso di intendere il lavoro. Tanti sono i volti e i nomi delle persone accolte, arrivando a stringere legami che vanno oltre il mero rapporto di lavoro: Miriam, Adama, Sanna, Mamadou, Mustapha, Alieu, Carolle… Questa sinergia, già sperimentata con successo altrove, potrebbe davvero essere la chiave per riuscire a mantenere, trasformandola, la preziosa identità del nostro territorio.

di Chiara Curini

IL SISTEMA SAI NEL LAZIO

Al 30 giugno 2025 il sistema Sai nazionale presenta 871 progetti, con 41.657 beneficiari e circa 2.000 comuni coinvolti. Nel Lazio, i progetti attivi sono 40 con 2.709 posti (alla data del rilevamento ne risultavano 22 liberi), di cui 113 per minori non accompagnati e 38 per il disagio mentale e l’assistenza sanitaria specialistica e prolungata.

di Chiara Curini